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    Agricoltura biologica, finzione o realtà?

     

     

    Sfatiamo alcuni falsi miti dell'agricoltura biologica che è una pratica non molto sostenibile in relazione alla produzione di cibo sano per gli altri.

    La certificazione biologica prevede la sostituzione degli ammendanti di sintesi chimica con ammendanti di origine organica ma sempre di ammendanti si tratta. Ad esempio la pianta coltivate in regime biologico sono spesso coltivate su un substrato di sangue di bovino secco al posto del nitrato di ammonio di derivazione sintetica. Personalmente non conosco studi scientifici che garantiscano che un tale substrato produca un cibo salutare per l'uomo. Viene anche da pensare alla moda del 'vegano' biologico che credendo di mangiare cibo non derivato da animali, mangia cibo che senza l'uccisione degli animali non potrebbe mangiare. Anche la pratica del sovescio non è una tecnica sostenibile e salutare per le radici delle orticole.

    La tecnica del biologico andrebbe migliorata ma la ricerca è praticamente ferma a quella di 30 anni fa quando ancora si parlava di 'biologico' in relazione alla 'vita' del terreno e non tanto alla quantità di sostanze inanimate come l'NPK (alias concime chimico). Un tempo si considerava la fertilità di un terreno in relazione alla sua capacità di albergare diverse specie viventi (microbiche e non). Tutti questi paramentri di fertilità (biodiversità, vitalità) sono diventati secondari e non compaiono concretamente nel disciplinare tecnico.

    L'agricoltura biologica si basa su una certificazione di processo. Ad una prima riflessione superficiale si potrebbe pensare che non sia così importante o che non sia fondamentale il processo con cui si coltiva ma che sia più importante la qualità del prodotto finale che poi si mangerà. Difatti la normativa del biologico non vieterebbe di coltivare a 50 metri dal grande raccordo anulare di una grande metropoli inquinatissima, cosa poco raccomandabile se si volesse ottenere un prodotto libero da inquinanti tossici. Il punto non è questo, cioè non è solo questo, ammesso che siano veramente pochi gli agricoltori biologici che coltivano effettivamente in aree fortemente inquinate. Gli aspetti che oggi sono diventati importanti sono due: il primo è la capacità dell'ambiente (e quindi del processo) di modificare in modo determinante i risultati ottenuti, il secondo è la scelta da parte dell'agricoltore del processo da adottare per ottenere il miglior risultato possibile in un determinato contesto, col minimo sforzo possibile. In questo senso il fatto di considerare il processo e non tanto (o non solo) il prodotto assume un valore fondamentale, cosa che forse si ignorava 30 anni fa quando il biologico muoveva i suoi primi passi e si cristallizzava in una serie di norme tecniche che oggi determinano i vincoli e i limiti entro i quali l'agricoltore biologico si può muovere e che non deve superare ma da cui si può anche, per sua libera scelta, discostare di molto sia per ragioni prudenziali che di concreta opportunità scientifica visto che più si è bravi a coltivare senza far uso di prodotti chimici e più la qualità diventa elevata col passare degli anni in quanto qualsiasi prodotto chimico (dal naturale a quello di sintesi) altera il microbioma del suolo e dell'aria alterando di conseguenza quell'equilibrio dinamico funzionale ad un cibo naturale e di qualità.

    La normativa è in generale rivolta a un tipo di consumo globale che ha bisogno di garanzie specifiche mentre a livello locale la conoscenza diretta del contadino evita la necessità di certificazioni formali e per come è strutturata e pensata la normativa del biologico impedisce l'accesso al contadino naturale che quindi viene penalizzato nel rapporto coi suoi potenziali clienti locali. Si pensi al problema delle mense scolastiche biologiche che sono costrette ad acquistare prodotti certificati (e comunque non completamente privi di residui di sostanze chimiche tossiche) quando invece sarebbe molto più logico approvvigionarsi dai migliori contadini naturali della zona.